Pubblicato il 08/07/2021
05208/2021REG.PROV.COLL.
09365/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9365 del 2020, proposto da
____, ____, ____, rappresentati e difesi dagli avvocati ____, ____, ____, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato ____ in ____, ____, n. ____;
contro
____, rappresentata e difesa dall’avvocato ____, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
COMUNE DI ____, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 10702 del 2020;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di ____;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2021 il Cons. Dario Simeoli;
L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Ritenuto che il giudizio può essere definito con sentenza emessa ai sensi dell’art. 74 c.p.a.;
Rilevato in fatto che:
– gli appellanti ‒ proprietari di due unità immobiliari site nel Comune di ____, in località Santa Severa, alla via F. degli Albizi, numeri 4 e 6 ‒ presentavano nel 2010, ai sensi dell’art. 3 della legge della Regione Lazio n. 21 del 2009 (c.d. ‘piano casa’), una dichiarazione di inizio attività per la realizzazione di un ampliamento in sopraelevazione del preesistente fabbricato;
– i lavori, avviati nell’ottobre 2010, venivano ultimati in data 29 aprile 2011;
– anni dopo, con istanza dell’8 gennaio 2020, la signora ____, proprietaria di un villino confinante con le unità immobiliari degli odierni appellanti, diffidava «il Comune di ____ […] a procedere […] all’accertamento della natura abusiva dell’attività edilizia non autorizzata ed arbitrariamente eseguita sull’immobile di proprietà dei Sig.ri ____e ____[…] ed in particolare: – del portico in cemento armato realizzato in assenza di qualsivoglia titolo autorizzatorio e pertanto del tutto abusivo; – degli ulteriori interventi edilizi realizzati in ampliamento e sopraelevazione del predetto portico abusivo in forza di D.I.A. prot. n. 5940 del 30 marzo 2010 presentata Sig.ri ____e ____»;
– a fronte del silenzio serbato dal Comune, la signora ____ proponeva ricorso ai sensi degli articoli 31 e 117 del c.p.a., con contestuale domanda risarcitoria;
– il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con sentenza n. 10702 del 2020, così statuiva: i) rigettava la domanda di accertamento della fondatezza nel merito della pretesa; ii) disponeva lo stralcio della domanda risarcitoria; iii) dichiarava l’illegittimità del contegno inerte del Comune, ordinando allo stesso di provvedere sull’istanza;
– avverso la predetta sentenza hanno proposto appello i signori ____, ____e ____, chiedendone la riforma sulla base dei seguenti mezzi di gravame:
a) il capo di sentenza che ha rigettato l’eccezione d’inammissibilità per la mancata impugnazione degli atti con cui il Comune ha confermato la liceità della trasformazione, ricollegando agli stessi mero valore endoprocedimentale, sarebbe erronea in quanto il Comune avrebbe ‘dichiarato’ la liceità della trasformazione con atto avente contenuto provvedimentale; peraltro, lo stesso T.a.r. avrebbe espressamente dato atto della comunicazione di «regolarità dei lavori eseguiti», con sentenza n. 7569 del 2012, costituente giudicato tra le medesime parti;
b) in relazione alla disciplina dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, vigente ratione temporis, non sarebbe comunque stato necessario alcun accertamento espresso: essendo infatti la D.I.A. del 30 marzo 2010, antecedente alla novella della legge sul procedimento, di cui al decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, la tutela non avrebbe potuto che essere affidata all’esperimento di un’azione impugnatoria volta all’annullamento dell’atto tacito di diniego del provvedimento inibitorio, da proporre nel rispetto del termine decadenziale (nella specie, al più tardi entro il 3 dicembre 2010), come statuito a suo tempo dalla Adunanza Plenaria n. 15 del 2011; la reiterazione della diffida del gennaio 2020, dunque, costituirebbe un evidentemente aggiramento dei termini decadenziali e dell’inoppugnabilità del provvedimento tacito formatosi;
c) sotto altro profilo, poiché le questioni dedotte nel presente giudizio replicherebbero la pluralità di istanze e diffide, che l’appellata avrebbe indirizzato dal 2010 al Comune, anche ad ammettere che lo spettro delle azioni esercitabili dal terzo sia quello oggi previsto dall’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, sarebbe comunque evidente la tardività dell’azione, essendosi nel frattempo consumato anche il potere tardivo di autotutela (di cui al comma 4 del medesimo articolo 19);
d) quanto agli atti del processo penale celebrato nei confronti del progettista (per falsità asseritamente compiute nel redigere la relazione asseverata), non vi sarebbe stato alcun giudicato di accertamento del reato, in quanto il decreto di condanna del 17 maggio 2017, a seguito di opposizione dell’imputato, si sarebbe concluso con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione; sull’area, in questione, non vi sarebbe peraltro alcun vincolo paesaggistico e, quanto all’autorizzazione sismica, la relativa denuncia sarebbe stata presentata il 22 ottobre 2010, prima dell’inizio dei lavori in cemento armato (come risulterebbe, sia dalle dichiarazioni del tecnico di parte, sia dal decreto di restituzione di beni in sequestro preventivo);
e) la sentenza sarebbe poi ‘ultra petita’: tenuto conto che, con le memorie di replica, controparte aveva chiarito che oggetto del presente giudizio non sarebbe la DIA del 2010 bensì il portico preesistente, la sentenza avrebbe dovuto pronunciare l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, considerato che tale manufatto sarebbe stato nel frattempo irreversibilmente trasformato per effetto della medesima DIA, con demolizione del solaio di copertura e realizzazione di un nuovo solaio in posizione ribassata;
f) poiché, con la memoria difensiva in primo grado, l’appellante aveva chiesto un congruo rinvio, in relazione alla impossibilità di ottenere tempestivamente gli atti del fascicolo relativo alla D.I.A. del 30 marzo 2010 (con riferimento alla totalità delle istanze e diffide depositate dalla ricorrente), il giudice di prima istanza non avrebbe potuto trattenere in decisione la causa, a ciò ostando l’incompletezza dell’istruttoria e la palese violazione delle facoltà difensive dell’odierna parte appellante, la quale aveva anche presentato ricorso ai sensi dell’art. 116 del c.p.a.;
– resiste in giudizio la signora ____, insistendo per il rigetto del gravame;
Ritenuto in diritto che:
– va preliminarmente rimarcato ‒ al fine di delineare con precisione l’oggetto del presente appello ‒ che la sentenza appellata ha soltanto dichiarato l’obbligo del Comune di provvedere sulla diffida trasmessa dall’odierna appellata in data 8 gennaio 2020, lasciando del tutto impregiudicata la verifica (spettante all’Amministrazione) dei presupposti, anche temporali, previsti per l’attivazione delle verifiche di cui all’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, e senza quindi pronunciarsi sulla doverosità delle misure di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001;
– il dispositivo della sentenza appellata va confermato sia pure con le seguenti puntualizzazioni;
– osserva il Collegio che la parte appellante erroneamente incentra il tema decisorio sulle condizioni di esercizio dei poteri di controllo dell’Amministrazione nell’ambito dei procedimenti edilizi ‘dichiarativi’, nonché sui rimedi spettanti al ‘terzo’ in relazione alla consolidazione della sfera soggettiva del segnalante per effetto del trascorrere del tempo, così come appare non del tutto pertinente il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 45 del 2019;
– nella presente controversia, invero, non si fa questione della ‘legittimità’ della D.I.A., bensì del compimento di opere che si denunciano come mai assentite;
– la denunciante, infatti, ha diffidato l’Amministrazione a procedere all’accertamento della natura abusiva dell’intervento edilizio realizzato sull’immobile di proprietà degli odierni appellanti, consistente in un portico in cemento armato che assume essere stato realizzato in assenza di qualsivoglia titolo autorizzatorio e neppure ricompreso tra le opere di cui alla denuncia di inizio attività del 2010;
– l’istante sostiene che l’abusività del predetto portico emergerebbe proprio sulla base del riscontro tra lo stato di fatto dell’immobile e quanto invece attestato nella D.I.A. del 2010 (nonché rispetto alle planimetrie allegate alla precedente D.I.A. del 15 gennaio 2007, relativa al frazionamento dell’originaria unità immobiliare, ed alla concessione edilizia in sanatoria del 6 febbraio 2007, rilasciata sempre al precedente proprietario);
– i termini cui sono ancorati i poteri di verifica di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, si riferiscono invece all’ipotesi in cui il ‘terzo’ contesti la compatibilità edilizia ed urbanistica delle opere ‘dichiarate’ (oggi dovrebbe dirsi di ‘segnalate’);
– quando si prospetta un caso di attività edilizia eseguita in assenza o in difformità dal titolo e vengono sollecitate le generali attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo in materia edilizia (che il comma 2-bis dell’art. 21 della legge n 241 del 1990 fa salve, anche quando è già «è stato dato inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20»), di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, non si può discorrere di un consolidamento della posizione del segnalante;
– la tutela dell’affidamento, come tratteggiata dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990, opera qualora il privato abbia agito in piena conformità ad una segnalazione rispetto alla cui legittimità il terzo sollevi obiezioni;
– diversamente opinando, avremmo che, per effetto di un atto privato, si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriverebbe da un provvedimento autorizzatorio espresso: anche il titolare del permesso di costruire resta, infatti, sempre esposto al potere di vigilanza dell’Amministrazione per le opere abusive non ‘coperte’ dal titolo rilasciato;
– per questi motivi, nel caso in esame, non vale invocare una sorta di ‘inoppugnabilità’ della D.I.A., in quanto il potere repressivo dell’Amministrazione in ordine agli illeciti edilizi, aventi natura permanente, non è sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione;
– vanno piuttosto richiamate le statuizioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2017, secondo cui la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo e allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata;
– contrariamente a quanto ritenuto dagli appellanti, tra i numerosi atti delle vicende procedimentali relative alla D.I.A. del 2010, non è ravvisabile alcun provvedimento che abbia dato seguito alle istanze di verifica edilizia ed urbanistica del manufatto in questione (ad esempio: sia la nota a firma del Geom. Melchiorre del 22 ottobre 2010, sia la relazione tecnica 27 giugno 2011, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica, non riguardano il portico in cemento armato di cui si controverte);
– deve quindi confermarsi l’illegittimità del ‘silenzio’ serbato dal Comune di ____, rispetto all’istanza di accertamento dell’8 gennaio 2020;
– va rimarcato che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990, l’amministrazione deve concludere il procedimento anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, salvo ovviamente l’ipotesi di manifesta pretestuosità;
– sotto altro profilo, non è dato ravvisare alcuna violazione del giudicato di cui alla sentenza del T.a.r. n. 7569 del 2012, la quale ‒ occupandosi del ricorso per l’accesso, ai sensi dell’art. 116 del c.p.a. proposto dall’odierna appellata in ordine all’istanza di accesso del 13 gennaio 2012 (avente ad oggetto agli atti del procedimento relativo alla D.I.A.) ‒ non contiene alcun accertamento di regolarità edilizia e urbanistica del manufatto per cui è causa;
– la circostanza poi che, con la nota del 4 ottobre 2010, l’appellata avrebbe già precedentemente segnalato al Comune l’abusività del portico, non comporta alcuna decadenza, dal momento che ‒ come correttamente riconosciuto dal primo giudice ‒ è sempre fatta «salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti» (art. 31, comma 2, del c.p.a.);
– è parimenti infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, motivata sul presupposto che l’accertamento richiesto sarebbe relativo ad un’opera oramai «non più esistente in quanto irreversibilmente trasformata e inglobata nell’attuale portico, urbanisticamente legittimato dalla DIA del 2010»;
– impregiudicata la verifica in fatto (spettante all’Amministrazione) se effettivamente il portico non sia più esistente (l’appellata sostiene, invece, che i pilastri e le fondazioni preesistenti sarebbero stati conservati, essendo stata modificata solo la copertura, abbassata per formare un solaio calpestabile), è dirimente considerare che gli interventi ampliamento e sopraelevazione di opere abusive ne ripetono l’abusività originaria;
– le questioni relative alla rilevanza urbanistica del portico, all’esistenza di vincoli paesaggistici sull’area de qua, così come ogni altro riferimento ai reati ascritti al progettista incaricato della D.I.A. del 2010, fuoriescono dal tema decisorio dell’appello, incentrato esclusivamente (giova ribadire) sulla correttezza della statuizione di primo grado che ha ordinato all’Amministrazione di provvedere alle verifiche edilizie e urbanistiche oggetto della denuncia del 2020;
– per gli stessi motivi, non è ravvisabile alcun vizio di ultra petizione, atteso che la sentenza di primo grado non si è pronunciata sulla legittimità delle opere oggetto di D.I.A.;
– sulla base di quanto riferito, è irrilevante ai fini del decidere l’acquisizione dei documenti del fascicolo riguardante la D.I.A. del 2010, oggetto delle istanze istruttorie degli appellanti;
– così chiarite le ragioni del rigetto dell’appello, a fini nomofilattici è importante però ribadire che correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto doverosi nell’an i poteri di controllo tardivo sulla SCIA, di cui all’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, sollecitati dal terzo, ferma restando la discrezionalità nel quomodo;
– è noto che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 45 del 2019, non ha accolto la tesi secondo cui la sollecitazione del ‘terzo’ avrebbe ad oggetto solo poteri inibitori, anche se presentata dopo la scadenza del termine perentorio (di cui ai commi 3 o 6-bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990), reputando invece che dopo tale termine il terzo possa sollecitare solo i poteri di autotutela;
– alla luce di tale pronuncia, i poteri di controllo sulla SCIA, se attivati tempestivamente (entro i sessanta o trenta giorni dalla segnalazione), sono vincolati, con la conseguenza che l’interessato potrebbe chiedere anche l’accertamento della fondatezza nel merito della pretesa; se attivati invece dopo il decorso del termine ordinario (ed entro i successivi diciotto mesi), sono invece subordinati alla sussistenza delle ‘condizioni’ di cui all’art. 21-nonies, della legge n. 241 del 1990;
– la Corte non ha tuttavia precisato se sussista, in capo all’Amministrazione, l’obbligo di avvio e conclusione del procedimento di controllo tardivo sollecitato dal terzo, ferma restando la piena discrezionalità nel quomodo;
– depongono nel senso della doverosità (in deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile), sia l’argomento letterale ‒ segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione «adotta comunque» (e non già semplicemente «può adottare») i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre che ricorrano le ‘condizioni’ per l’autotutela) ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo;
– avendo il legislatore optato per silenzio-inadempimento quale unico mezzo di tutela (‘amministrativo’) messo a disposizione del ‘terzo’, ove non sussistesse neppure l’obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, si finirebbe per privare l’istante di ogni tutela effettiva davanti al giudice amministrativo, in contrasto con gli articoli 24 e 113 della Costituzione;
– è necessario quindi riconoscere, rispetto alla sollecitazione dei poteri di controllo tardivo, quanto meno l’obbligo dell’amministrazione di fornire una risposta;
– non è questa la sede per chiedersi invece se la persistente discrezionalità nel quomodo dei poteri di intervento tardivo costituisca un ragionevole contemperamento tra le esigenze di tutela del legittimo affidamento del segnalante e quelle di tutela dell’interesse pubblico (una questione analoga è stata dichiarata inammissibile dalla Corte, con la sentenza n. 153 del 2020);
– l’appello va quindi respinto;
– la liquidazione delle spese di lite del secondo grado di giudizio segue la regola generale della soccombenza;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 9365 del 2020, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese di lite del secondo grado di giudizio in favore della controparte costituita, che si liquidano in complessivi € 3.000,00, oltre accessori di legge se dovuti. Nulla per il resto.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente
Hadrian Simonetti, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Dario Simeoli | Sergio De Felice | |
IL SEGRETARIO