Pubblicato il 17/05/2021
03836/2021REG.PROV.COLL.
05788/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5788 del 2013, proposto dal Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati ____ e ____, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato ____ in ____, via ____
contro
la -OMISSIS- in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati ____ e ____, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in ____, piazza ____, nonché dall’avvocato ____, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Campania, sezione staccata di Salerno, sez. I, -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente il diniego del certificato di agibilità di un complesso artigianale.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Società -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Vista l’ordinanza della Sez. IV del Consiglio di Stato n. -OMISSIS- del 28 agosto -OMISSIS-;
Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 30 marzo 2021, il Cons. Antonella Manzione in collegamento da remoto in videoconferenza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’odierno appello il Comune di -OMISSIS- ha impugnato la sentenza n. -OMISSIS- del 7 gennaio -OMISSIS- con la quale il T.A.R. per la Campania, sezione staccata di Salerno, ha accolto il ricorso proposto dalla Società -OMISSIS- (d’ora in avanti, solo la Società), annullando il provvedimento del Segretario generale dell’Ente, prot. n. 22422 del 31 luglio 2012, di rigetto dell’istanza di rilascio del certificato di agibilità riferito ad un complesso artigianale realizzato in località Sant’Antonio, via Ponti Rotti. Ciò in quanto ha ritenuto che sulla richiesta si fosse ormai formato il silenzio assenso previsto dall’art. 25 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, essendo ampiamente decorsi entrambi i termini ivi previsti (30 o 60 giorni, a seconda che sia stato acquisito o meno il previo parere della A.S.L.) dall’inoltro della relativa domanda, datata 13 aprile 2012.
2. La difesa civica, premessa una ricostruzione in fatto e in diritto della complessa vicenda sfociata nel provvedimento di diniego avversato dalla Società, ritiene la ricostruzione del primo giudice non conforme ad una corretta lettura del quadro normativo riveniente dagli artt. 25, comma 4 e 26 del richiamato d.P.R. n. 380/2001, nonché 20 della l. 7 agosto 1990, n. 241 e 222 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 (T.U.L.S.). La dedotta incompletezza della domanda di agibilità, infatti, non era stata invocata per attribuirle l’effetto di interrompere tardivamente lo spatium deliberandi dell’Amministrazione, bensì, in maniera più radicale, in quanto idonea ad impedirne la decorrenza, escludendo la possibilità di maturazione del silenzio assenso. La certificazione di agibilità, infatti, assorbe i requisiti di natura igienico-sanitaria, di cui all’art. 222 del Testo unico delle leggi sanitarie n. 1265 del 1934, ma non si esaurisce negli stessi, riguardando anche la conformità urbanistica dell’immobile, nel caso di specie mancante (motivo sub I). D’altro canto, quand’anche il Comune avesse esercitato il suo potere di annullamento d’ufficio, avrebbe comunque operato nel pieno rispetto degli artt. 7, 8, 21 octies e 21 nonies della l. n. 241 del 1990, giusta ridetto rilevato contrasto con gli strumenti urbanistici e con il titolo edilizio e la sussistenza dell’interesse pubblico a rimuovere un abuso. Infine erano state rispettate le garanzie partecipative, essendo stata inoltrata alla parte in data 22 giugno 2012 una nota per renderla edotta delle carenze riscontrate e preannunciarle il diniego (motivo sub II, articolato in a/1, a/2 e a/3).
3. Si è costituita in giudizio la Società con memoria in controdeduzione, corredata di documentazione a supporto. In via preliminare, ha eccepito la inammissibilità dell’appello in quanto non notificato agli acquirenti dei lotti facenti parte del complesso di cui è causa. Nel merito, ne ha contestato la fondatezza, ritenendo condivisibile la ricostruzione del primo giudice che ha affermato l’avvenuta maturazione del silenzio assenso e la conseguente insussistenza dei presupposti per il suo annullamento d’ufficio, tanto più che l’intervento era stato avallato da ben due pareri favorevoli della A.S.L. competente per territorio (rispettivamente, in data 15 febbraio 2005 e 23 novembre 2006). Ha quindi riproposto i motivi di doglianza non scrutinati dal primo giudice, ovvero, in sintesi: non sussisteva la lamentata violazione urbanistica, identificata nella mancata realizzazione di un’intera arteria stradale anziché del solo tratto prospiciente la proprietà, in forza di un’errata lettura dell’art. 2, comma 2, della convenzione accessiva al piano di lottizzazione. L’inoltro del preavviso di diniego non può valere anche come comunicazione di avvio di un procedimento di annullamento d’ufficio. Il Segretario/Direttore generale dell’Ente non aveva la competenza ad adottare l’atto de quo. La agibilità, in quanto attinente ai soli profili «di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico» espressamente richiamati dall’art. 24 del d.P.R. n. 380/2001, avrebbe potuto essere annullata solo in presenza di interessi pubblici riconducibili a siffatti elementi, in quanto tassativi. L’atto sarebbe immotivato anche in relazione al principio di proporzionalità. Infine, l’eventuale mancato rispetto di qualsivoglia clausola contrattuale, avrebbe dovuto essere risolto sul piano civilistico tra le parti, siccome del resto previsto dall’art. 10 della convenzione, relativo appunto all’inadempimento.
4. Con l’ordinanza -OMISSIS- la Sezione IV di questo Consiglio di Stato ha respinto la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, sull’assunto, mutuato dalla stessa, che «l’irregolarità urbanistica può dar luogo all’annullamento del permesso di costruire, e non già dell’agibilità, che attiene invece alla salubrità degli ambienti».
5. Con successiva memoria in data 22 marzo 2021 la Società ha eccepito anche la improcedibilità dell’appello, avendo essa alla fine provveduto a quanto richiesto, una volta messa in condizione di farlo dal Comune mediante l’acquisizione dei terreni interessati alla realizzazione della strada, neppure espropriati all’epoca dei fatti di causa.
6. In vista dell’odierna udienza, la difesa civica ha depositato note conclusive per ribadire la propria prospettazione, contestando altresì ridetta improcedibilità: non vi sarebbe alcuna prova di quanto affermato, essendo anzi la circostanza smentita dalla nota del responsabile del Settore “Pianificazione urbanistica” del Comune in data 26 marzo 2021, contestualmente versata in atti. La documentazione prodotta da controparte, inoltre, oltre che inconferente ai fatti di causa, in quanto riferibile alle aree a standard e non alla porzione viaria in contestazione, andrebbe stralciata perchè prodotta tardivamente rispetto ai termini di cui agli artt. 73 e 104 c.p.a.
La Società ha a sua volta depositato note d’udienza per ribadire sia la asserita improcedibilità, sia l’infondatezza dell’appello.
7. Alla pubblica udienza del 30 marzo 2021, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
8. Preliminarmente il Collegio ritiene di respingere le eccezioni di rito sollevate dalla Società.
8.1. Non assume alcun rilievo l’omesso coinvolgimento dei promissari acquirenti dei terreni ricompresi nel lotto in contestazione, stante che la vicenda attiene alla regolarità dell’intervento per come “certificato” dall’impresa costruttrice, unico interlocutore del Comune, che peraltro, non ha inteso coinvolgerli nel giudizio di primo grado, benché i contratti depositati rechino quasi tutti una data antecedente la proposizione del ricorso (anno 2006). Se si eccettua, inoltre, una sola vendita perfezionata nel 2013 nei confronti della azienda agricola “-OMISSIS-”, non è neppure chiarito se alla stipula dei preliminari abbia effettivamente fatto seguito la cessione del bene.
8.2. Egualmente priva di pregio è la eccepita improcedibilità per asserito venir meno dell’interesse all’appello, non avendo la parte provato di avere effettivamente regolarizzato l’intervento, ammesso e non concesso, peraltro, che la realizzazione postuma della strada possa produrre ancora il relativo effetto. Il riferimento a tale circostanza, casomai, in una con le rappresentate difficoltà oggettive ad ottemperare agli impegni assunti in ragione della riferita indisponibilità dei suoli, non pare affatto coerente con la pregressa tesi difensiva, risolvendosi piuttosto nella implicita sostanziale ammissione dell’esistenza dell’obbligo. Quanto alla documentazione prodotta a supporto, pur essendone chiara la non riferibilità agli aspetti critici della causa, ne deve essere disposto lo stralcio ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a., non avendo la Società addotto alcuna giustificazione della tardività del deposito.
9. Nel merito, l’appello è fondato.
10. La complessa vicenda che ci occupa interseca una serie di tematiche giuridiche alle quali merita fare un sintetico cenno allo scopo di inquadrarne correttamente i contorni. A monte, tuttavia, il Collegio ritiene necessarie ulteriori precisazioni in fatto. La peculiarità della fattispecie risiede innanzi tutto nella circostanza che la convenzione della quale si contesta la mancata esecuzione accede ad una lottizzazione postuma o “in sanatoria”, approvata dalla Giunta municipale su iniziativa della Società per porre rimedio all’originario errore procedurale consistito nell’avere avallato l’intervento di realizzazione del complesso immobiliare con un semplice permesso di costruire (n. 45 del 2007). Solo in conseguenza dell’avvenuta attivazione di un procedimento penale per lottizzazione abusiva da parte della Procura presso il Tribunale di Salerno, in relazione peraltro anche ai reati di cui agli artt. 323 e 479 c.p., l’Amministrazione si è infatti fatta carico di rimediare alla violazione degli artt. 20 delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del Piano regolatore e 97 e 100 del Regolamento edilizio, che imponevano per l’intervento in contestazione la previa adozione di uno specifico piano attuativo.
11. Il Collegio ritiene altresì necessario un breve richiamo alla tipologia di strumento urbanistico attuativo utilizzato, cui accede la convenzione asseritamente inadempiuta, ovvero un Piano di recupero. Per quanto, infatti, non sia questione tra le parti circa la correttezza della scelta effettuata (in verità tutt’altro che chiara avuto riguardo alla efficacia sanante attribuitale), l’analisi della fattispecie non può prescindere dalla sua collocazione nel contesto della stessa.
11.1.I Piani di recupero, introdotti dall’art. 27 della l. 5 agosto 1978, n. 457 costituiscono lo strumento individuato dal legislatore per attuare il riequilibrio urbanistico di aree degradate o colpite da più o meno estesi fenomeni di edilizia “spontanea” e incontrollata, legittimati, appunto, ex post. Essi, cioè, hanno sì l’obiettivo di “recupero fisico” degli edifici, ma collocandolo in operazioni di più ampio respiro su scala urbanistica, in quanto mirate alla rivitalizzazione di un particolare comprensorio urbano (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 giugno 2016, n. 2897; sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5078).
A tali Piani si è fatto ampiamente ricorso per scongiurare la confisca dei terreni oggetto di lottizzazione abusiva, come documentato dalla copiosa giurisprudenza penale sul rapporto tra la loro adozione e la irrogazione della sanzione più grave in ambito urbanistico-edilizio, costituita dalla ablazione della proprietà. La scelta, infatti, di modificare l’assetto urbanistico per regolarizzare la cornice degli interventi di lottizzazione è stata intesa come un’implicita rinuncia all’acquisizione del bene, ritenendone più consono, anche nell’interesse pubblico, il mantenimento nella disponibilità del privato, seppure in un assetto territoriale adeguato allo scopo.
11.2. Pur ribadendo, dunque, la legittimità originaria del permesso di costruire, nonché la presenza in loco delle necessarie opere di urbanizzazione primaria, il Comune ha inteso sanarne “tuzioristicamente” la portata con la previsione di quegli interventi paventati come carenti dal giudice penale, inserendoli in un nuovo atto di pianificazione convenzionata, essendo doveroso onerare della relativa realizzazione il costruttore originario. Tra questi, in ossequio alle previsioni dell’art. 5, comma 1, del d.m. n. 1444/1968, figura anche il tratto stradale di cui è causa, che dovendo contribuire ad urbanizzare l’intero lotto, non poteva che essere funzionale allo stesso e non solo alla porzione di terreno di specifico interesse della Società. Non è chi non veda, dunque, come la lettura rigorosa della convenzione proposta dal Comune costituisca il necessario corollario della finalità sanante della stessa, siccome in senso diametralmente opposto le eccezioni sollevate dalla controparte, basate sulla mera formulazione letterale della norma pattizia, finiscono per sottrarla indebitamente alla cornice rimediale di una situazione di pregresso abuso nella quale, al contrario, essa deve necessariamente collocarsi.
12. Quanto sopra detto appare essenziale per valutare la portata della mancata realizzazione della strada di collegamento tra la statale “18” e via Ponti Rotti, già esistente come tracciato, siccome previsto dall’art. 2 della convenzione accessiva al Piano di recupero.
12.1. La Sezione ha già avuto modo di occuparsi degli effetti degli accordi, bilaterali o unilaterali, che “completano” le scelte urbanistiche delle Amministrazioni e del loro impatto sulla regolarità dell’attività edificatoria dei privati. L’esigenza immanente alla finalità di buon governo del territorio di funzionalizzare allo scopo l’esercizio dello ius aedificandi, rende infatti spesso conveniente per l’Amministrazione “scendere a patti”, soprattutto laddove vengano in evidenza interventi di consistente rilevanza, che consentono di bilanciare la valorizzazione del bene con la richiesta di sforzi aggiuntivi al privato in termini di dare ovvero di facere, onde orientarne la maggiore libertà di movimento verso gli obiettivi pubblici di programmazione. Oggi peraltro tutta la vasta pletora di convenzioni urbanistiche comunque denominate vengono di regola ricondotte sotto l’egida dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, caratterizzata dall’aggiungere al paradigma pubblico generale i canoni del diritto civile «ove non diversamente previsto» e «in quanto compatibili» (comma 2). Dopo le originarie oscillazioni sul punto, i più recenti arresti convergono sulla accentuazione della funzione di individuazione convenzionale del contenuto del provvedimento che l’amministrazione andrà ad emettere a conclusione del procedimento preordinato all’esercizio della funzione urbanistico-edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). Si è dunque affermato che la convenzione, stipulata tra un Comune e un privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di un titolo edilizio, si obblighi ad un facere o a determinati adempimenti nei confronti dell’ente pubblico (quale, ad esempio, la destinazione di un’area ad uno specifico uso, cedendola), non costituisce un contratto di diritto privato, non avendo specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, ma configurandosi piuttosto come un atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione. A valle, dunque, si pone il provvedimento amministrativo; a monte, l’accordo, via via paragonato alla accettazione della proposta pubblica, in quanto finalizzato a perseguire programmati e manifestati obiettivi urbanistici del Comune; ovvero al contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, secondo il modulo semplificato dell’art. 1333 c.c.; ovvero infine ad un mero atto negoziale, funzionale alla definizione consensuale del contenuto del provvedimento finale, che si iscrive però nel procedimento di rilascio del titolo abilitativo edilizio ed è dallo stesso recepito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5628).
Né tale ricostruzione può essere inficiata dall’inversione temporale della convenzione -e del Piano cui accede- rispetto ad un titolo edilizio già rilasciato, stante che la rivendicata finalità (anche) sanante dello stesso non può non condizionarne l’auspicato recupero di efficacia.
13. Chiarito quanto sopra, è evidente che la tesi avanzata dalla Società quale denegata ipotesi, ovvero la riconduzione della mancata ottemperanza agli obblighi assunti alla mera inadempienza contrattuale da risolvere sul piano civilistico tra le parti, non appare condivisibile. Vero è, infatti, che l’art. 10 della convenzione, sotto la rubrica “inadempimento”, prevede esplicitamente quale conseguenza dello stesso la sua «decadenza[…] con le conseguenze connesse». Ma lo è in eguale misura che ridette “conseguenze connesse” altro non sono che la perdita di validità del titolo cui la convenzione accede, rendendo abusivo l’intervento che si vorrebbe realizzare in forza dello stesso (recte,nel caso di specie facendo venire meno l’effetto sanante del titolo postumo).
14. D’altro canto, la tesi in forza della quale la Società era tenuta esclusivamente alla realizzazione pro quota del tratto stradale in contestazione, contrasta con il tenore letterale dell’art. 2 della Convenzione che non prevede alcun frazionamento del tracciato “già esistente”, da realizzare “a regola d’arte”, per poi farne oggetto di cessione al Comune. Condizione questa in verità già prevista negli elaborati grafici di progetto della variante alle zone artigianali e commerciali adottata con delibere di Consiglio comunale n. 33 del 23 maggio 2003 e n. 42 del 28 settembre 2004, ancorché da subito contestata dalla Società.
15. Ma vi è di più. Nel caso di specie l’inadempimento convenzionale ha assunto rilievo non ex se, ma in quanto posto a fondamento dell’impugnato diniego di agibilità.
Sul punto il primo giudice, con argomentazione fatta propria anche da questo Consiglio di Stato in sede di decisione cautelare, ha ritenuto di dovere disgiungere i due procedimenti, di regolarità urbanistico-edilizia e di agibilità, riconducendo quest’ultima ai soli aspetti igienico-sanitari. Da qui il richiamo alla necessità che le eventuali problematiche concernenti il preesistente permesso di costruire, fossero oggetto di diversa e autonoma valutazione, «in vista del suo annullamento d’ufficio, qualora ne ricorrano i presupposti». Con ciò pretermettendo non solo la circostanza che ridetto titolo edilizio è stato ancorato in maniera postuma alla realizzazione di quanto previsto nel Piano di recupero a sanatoria; ma anche e soprattutto che la agibilità, lungi dal costituire un subprocedimento separato da quello sotteso alla realizzazione di un’opera, ne rappresenta il punto d’approdo finale, suggellandone la regolarità in primo luogo in quanto conforme alle autorizzazioni in forza delle quali essa è stata realizzata.
16. Secondo il T.A.R., dunque, i procedimenti finalizzati ai controlli di regolarità urbanistico-edilizia non intersecano in alcun modo quelli inerenti la agibilità dei fabbricati, riferibile esclusivamente al possesso dei requisiti di salubrità dell’immobile. Di ciò sarebbe conferma a contrario nel richiamo contenuto nell’art. 26 del d.P.R. n. 380/2001 all’art. 222 del T.U.L.S., laddove consente al Sindaco (“Podestà”, secondo la dicitura dell’epoca) di «dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero», seppure formalmente agibile.
17.La ricostruzione non può essere condivisa.
17.1. Occorre innanzi tutto chiarire come il termine “agibilità” sia stato in passato utilizzato dal legislatore in un’accezione del tutto diversa da quella attualmente riconducibile alla richiamata disciplina urbanistica, con ciò generando una certa confusione interpretativa ed atecnicità di linguaggio, in particolare in relazione a specifiche tipologie di immobili. Ad essa, ad esempio, si fa ancora oggi riferimento in relazione alla certificazione dei requisiti di solidità e sicurezza che devono possedere i teatri e luoghi di pubblico spettacolo ai sensi dell’art. 80 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, T.U.L.P.S, denominata, appunto, “licenza di agibilità”, nell’art. 1, comma 1, n. 9, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito la competenza al relativo rilascio ai Comuni.
L’art. 220 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, invece, disciplinava la c.d. “abitabilità”, ovvero la fruibilità degli immobili a fini abitativi. La norma disponeva che «I progetti per le costruzioni di nuove case, urbane o rurali, quelli per la ricostruzione o la sopraelevazione o per modificazioni, che comunque possono influire sulle condizioni di salubrità delle case esistenti debbono essere sottoposti al visto del podestà, che provvede previo parere dell’ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia». Agli stessi tipi di immobili (“abitazioni”) aveva riguardo anche il d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, contenente il Regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all’abitabilità. L’art. 4, comma 1, dello stesso prevedeva che ai fini del rilascio del documento di cui all’art. 220 del T.U.L.S. il direttore dei lavori attestasse sotto la propria responsabilità, anche «la conformità rispetto al progetto approvato».
Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, la “abitabilità” cede il passo (a seguito dell’abrogazione sia dell’art. 220 del T.U.L.S. che del d.P.R. n. 425/1994) alla omnicomprensiva “agibilità”, siccome riferita a qualsivoglia tipologia di edificio, non solo di natura abitativa. Il relativo termine sopravvive pertanto esclusivamente nel gergo degli operatori del settore, che continuano ad utilizzarlo in relazione agli immobili a destinazione residenziale per distinguerli da quelli con diversa destinazione d’uso, per i quali quello nuovo di “agibilità” si palesa anche etimologicamente più confacente.
L’art. 24, dunque, nella sua stesura originaria, vigente al momento dell’odierna controversia, stabiliva che: «Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente». La presunta tassatività dell’elencazione non tiene tuttavia conto del fatto che il successivo art. 25, che declina il procedimento di rilascio, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta, menziona espressamente la «conformità dell’opera rispetto al progetto approvato», ovvero, in buona sostanza, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica. Con il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, che ha ricondotto la certificazione al regime della s.c.i.a., tale requisito di conformità è stato riportato sin nella norma definitoria (art. 24) che include espressamente la «conformità dell’opera al progetto presentato» tra le cose che il tecnico deve asseverare all’atto della presentazione della dichiarazione, unitamente peraltro alla sua «agibilità». Il richiamo conclusivo alla stessa, all’apparenza ultroneo, ove non del tutto pleonastico, assume piuttosto il significato di voler raccogliere in un unico termine tutti gli aspetti di regolarità necessari, riassumendone l’elencazione, senza neppure esaurirsi in essa vista la variegata gamma delle destinazioni d’uso degli immobili. L’agibilità dei manufatti o dei locali dove si intende svolgere un’attività commerciale, ad esempio, rappresenta il necessario ponte di collegamento fra la situazione urbanistico-edilizia e quella commerciale nel senso che la non conformità dei locali per il versante urbanistico-edilizio si traduce nella loro non agibilità anche sul versante commerciale. All’inverso, ai fini dell’agibilità, è necessario che il manufatto o il locale sia assistito dallo specifico titolo edilizio abilitativo e, più in generale, che lo stesso non rivesta carattere abusivo, esigendosi, in tal modo, una corrispondenza biunivoca tra conformità urbanistica dei beni ospitanti l’attività commerciale e l’agibilità degli stessi (sul punto cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2018, n. 3212; T.A.R. per la Campania, Sez. III, 9 marzo 2020, n. 1035).
17.2. Come emerge dal delineato quadro normativo, quindi, il rilascio del certificato di agibilità, ovvero, oggi, la sua dichiarazione, presuppone una molteplicità di valutazioni ulteriori rispetto a quelle che erano sottese al vecchio certificato di abitabilità, cui il primo pertanto non può essere del tutto assimilato, siccome affermato dal primo giudice. Di ciò è prova proprio nell’art. 26 del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato con finalità diametralmente opposta dal primo giudice. Nel consentire, infatti, al Sindaco di intervenire comunque dichiarando la inabitabilità di un immobile, già certificato come agibile, ai sensi dell’art. 222 del T.U.L.S., il legislatore ha inteso ribadire le differenze tra i due istituti: altro è, infatti, la strutturale conformità del fabbricato a tutti i requisiti richiesti e, in parte, assorbiti nella conformità al titolo edilizio in forza del quale è stato realizzato, altro la sua (sopravvenuta) carenza di requisiti igienici tale da non consentirne l’occupazione a fini abitativi.
18. Anche prima della riforma che ne ha ricondotto il conseguimento ad una mera segnalazione certificata, il procedimento di acquisizione della agibilità si connotava per la sostanziale attribuzione al privato richiedente dell’onere di dimostrare la regolarità di quanto realizzato, salvo richiedere comunque al Comune di “certificarne” i contenuti. Solo a seguito della acquisizione della stessa, peraltro, può considerarsi legittimo l’utilizzo in concreto dell’immobile in conformità con la propria destinazione d’uso, seppure il relativo illecito sia punito con una sanzione pecuniaria di non particolare entità. Al fine, dunque, di non procrastinare indebitamente proprio la fruizione del bene, ovvero la sua commerciabilità, il comma 4 dell’art. 25, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che decorsi trenta giorni dalla ricezione della domanda, ovvero, in caso di presenza del richiesto parere della A.S.L., sessanta giorni, l’inerzia dell’Amministrazione abbia validità di assenso.
19. Punto centrale della motivazione della sentenza impugnata è la riconduzione dell’atto del Segretario generale del Comune ad un annullamento d’ufficio del provvedimento tacito di assenso, non consentito in assenza di una motivazione di interesse pubblico pertinente ratione materiae.
19.1 Alla luce di tutto quanto sopra detto, il Collegio ritiene corretta la diversa prospettazione della difesa civica di cui al motivo sub I dell’atto di appello. Affinché, infatti, possa decorrere il termine per la maturazione del silenzio assenso è necessario che la domanda presentata sia completa delle indicazioni previste dal comma 1 del medesimo art. 25 del d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero, per quanto qui di interesse, della declaratoria di conformità al progetto edilizio, iniziale ed integrato con gli obblighi assunti all’esito dell’adozione del nuovo Piano attuativo. La disciplina della certificazione dell’agibilità, infatti, «non configura una vera e propria ipotesi di silenzio assenso in senso tecnico, di cui all’art. 20 della legge 241/1990, ma dà invece luogo ad una sorta di legittimazione ex lege, che prescinde dalla pronuncia della Pubblica amministrazione e che trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del titolo» (T.A.R. per la Lombardia, sez. II, 10 febbraio 2010, n. 332). Allo stesso risultato può peraltro pervenirsi pur nell’ambito del paradigma del silenzio assenso, stante che non può ipotizzarsi la decorrenza del relativo termine in mancanza dei requisiti essenziali della domanda, siccome reiteratamente affermato dalla giurisprudenza con riferimento, ad esempio, alla materia del condono edilizio. Nel caso di specie, l’attività edilizia della Società era stata finanche stigmatizzata con una esplicita diffida a proseguire i lavori (nota del 23 agosto 2011), dai contenuti sostanzialmente anticipatori del successivo diniego di agibilità, in quanto riferiti alla riscontrata inottemperanza all’art. 2, comma 3 e 7 della Convenzione del 6 dicembre 2010, accessiva al Piano di recupero postumo. Con successivo preavviso di diniego del 22 giugno 2012, prot. 18567, si era egualmente sottolineata la ritenuta illiceità delle opere realizzate, mancando il requisito del previsto frazionamento della strada di collegamento tra la Statale n. 18 e la via Ponti Rotti, del relativo collaudo e della conseguente cessione al Comune, condizionante la validità sia della variante al permesso di costruire n. 45 del 9 maggio 2007, sia, soprattutto, del Piano di recupero in sanatoria approvato con delibera di Giunta n. 162 del 20 luglio 2010.
20. Diversamente opinando, siccome preteso dalla Società e avallato dal T.A.R. per la Campania, ovvero ritenendo certificabile come agibile anche un immobile abusivo, purché conforme ai requisiti igienico-sanitari e di risparmio energetico previsti, si finirebbe per trasformare la relativa qualificazione in una sorta di ulteriore sanatoria cartolare, ovvero, al contrario, per svuotarne completamente la portata, stante che la natura permanente dell’illecito edilizio ad essa sottesa non ne impedirebbe comunque l’assoggettamento al previsto regime sanzionatorio.
21. Rileva infine il Collegio che alla ricostruzione proposta non è di ostacolo l’effettiva ambiguità narrativa dell’atto impugnato, che dopo avere dettagliatamente ricostruito i complessi passaggi della vicenda, rigetta la domanda di agibilità, richiamandone altresì l’ipotetico annullamento ove la stessa «venga intesa come attestata ai sensi di legge». L’espressione, infatti, lungi dal mutare la natura del provvedimento avversato, ne rafforza la portata precettiva, seppure in maniera impropria, replicando formalmente alle insistenti interlocuzioni della Società, che ne rivendicava l’assenso tacito. Quand’anche, peraltro, si voglia dare rilievo al solo dato formale della decorrenza del tempo dalla presentazione dell’istanza, del tutto correttamente ne avrebbe annullato gli effetti, essendo la certificazione tacita illegittima per contrarietà alla disciplina urbanistica, il cui rispetto essa deve comunque asseverare.
22. In sintesi, la violazione di una convenzione accessiva ad un Piano attuativo urbanistico impatta sulla regolarità dei lavori eseguiti, condizionando la validità del titolo. Essendo la agibilità la summa del possesso dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, essa non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace, sicché non ne è necessario il preventivo annullamento. La sua avvenuta formalizzazione, da parte del Comune, in assenza dei richiamati requisiti, non riducibili a quelli nominativamente indicati all’art. 24 del d.P.R. n. 380/2001 nella formulazione vigente all’epoca dei fatti di causa, non sana comunque l’abuso edilizio, con riferimento al quale permangono i poteri sanzionatori attribuiti al Comune.
23. Per quanto sopra detto, il Collegio ritiene di accogliere l’appello e conseguentemente in riforma della sentenza n. 21 del T.A.R. per la Campania, sede staccata di Salerno, di respingere il ricorso n.r.g. 1567/2012 proposto dalla Società ____ e confermare la legittimità del provvedimento del Segretario generale del Comune di -OMISSIS- del 31 luglio 2012.
24. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
25. La complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità del legale rappresentante della Società nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificarlo.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2021, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino, Consigliere
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Antonella Manzione | Gianpiero Paolo Cirillo | |
IL SEGRETARIO